Intervista a Don Diegoh

La testimonianza di un rapper che ha vissuto in prima persona l’evoluzione del freestyle. Finalista del Tecniche Perfette Finale Nazionale 2006 contro July B, Don Diegoh calca ormai da più di dieci anni i palchi italiani. Il suo pensiero, venendo da una scuola diversa, potrebbe apparire in controtendenza con il movimento del freestyle attuale. Proprio per questo è stato particolarmente interessante intervistarlo e comprendere come – uno della “vecchia scuola” – concepisca il freestyle di oggigiorno.

Come hai iniziato a fare freestyle?

Intorno al ’98-’99, ricordo che avevamo questo magazzino sotto casa in cui ci riunivamo per ascoltare musica. Chiaramente eravamo affascinati dai freestyler dell’epoca anche se era ben poco il materiale che c’arrivava. Ci erano arrivate alcune battle storiche di quel periodo, per esempio Maury B vs Tormento, o alcuni freestyle di Neffa o del Danno. Scrissi il mio primo testo, orribile tra parentesi. A poco a poco capii che questa cosa la potevo fare anch’io e iniziai a fare tantissimo freestyle, su basi americane ‘cuttate’ da un dj, o su beatbox.

Lo facevi sempre in gruppo o anche da solo?

Lo facevo anche da solo con o senza base. La mattina presto davanti allo specchio spesso mi mettevo a improvvisare mentre mi preparavo per andare a scuola o camminando per strada da casa mia fino al centro della città. E se qualche amico mi vedeva mi prendeva per il culo o pensava fossi un pazzo.

Che fase era per il freestyle italiano?

Era la Golden Era degli anni ’90, il rap si stava evolvendo molto, attraverso la rivista Aelle, c’erano tantissime fanzine, c’erano eventi molto grossi, Radio Deejay faceva trasmissioni in cui invitava rapper molto famosi (Colle der Fomento, Speaker Cenzou, La Famiglia, Esa…), c’era chi era già mainstream. Non c’era la sovraesposizione attuale, dovuta ai social e Internet non era ancora il mezzo per eccellenza, però all’epoca l’impatto mediatico era già discretamente forte, tanto che arrivava anche a me che ero in Calabria senza un pc e senza bazzicare sul web.

Quando ti trasferisci a Roma?

Nel 2006, dopo aver fatto una grossa gavetta in Calabria, dove partecipavo spesso alle battle.

Finalista al Tecniche del 2006 contro July B, hai degli aneddoti su quella finale?

Potrei raccontare qualcosa sulla semifinale: io mi ero trasferito a Roma solo da 3-4 giorni, al che mi iscrivo alla finale regionale del Tecniche Perfette ed ero uno dei pochi non romani in gara. Per vincere la semifinale del Tecniche Perfette Lazio dovetti battere nella finale 4 grandi mc’s romani (Johnny Roy, Rancore, Canesecco e Hyst). Subito dopo avermi dichiarato vincitore, Hyst mi dice in tono scherzoso “ma tu che cazzo ci fai qua?” non essendo di Roma. Scoppiammo a ridere entrambi.

Poi la finale a Torino…

Per arrivarci fu un Odissea. Presi un treno fino a Pisa e poi da Pisa dei miei amici mi portarono in auto fino a Torino. Contro July B fu una bella battle, 45 minuti, molto combattuta, non feci una performance grandiosa perché ero ancora molto acerbo (22 anni da compiere), non avevo ancora raggiunto quella maturità che si ottiene soprattutto attraverso i live, che valgono ancora di più dell’allenamento che fai da solo. Fu un’esperienza di vita, finita tutta quella roba lì ci mettemmo in macchina per tornare.

Chi avevi battuto?

Sia nei quarti di finale che in semifinale Kenzie (venne ripescato), che poi è diventato uno dei miei migliori amici nel gioco del rap. Proprio confrontandoci sull’esito delle sfide diventammo amici.

Era importante per la carriera partecipare alla Finale del Tecniche Perfette?

Sì, iniziò a girare il mio nome, finii su Groove, iniziarono a chiamarmi in giuria alle serate. Fu una sorta di piccolo trampolino, un boost, che mi diede la possibilità di girare un po’ l’Italia e di conoscere un po’ di addetti ai lavori.

C’era anche Madman in quella finale…

Sì, lui era molto forte e molto infottato. C’erano anche Claver e Johnny Marsiglia (che all’epoca si chiamava ancora Johnny Killa).

La tua ultima battle?

Ne ho fatte alcune per scherzo iscrivendomi con un nome falso (ride). Una delle ultime vere è stata la Battle Arena a Bologna, dove persi contro la mia bestia nera Dank.

Continui a fare freestyle?

Non c’è un live in cui io non faccia freestyle, mi diverte ancora a farlo ed è parte del mio percorso. Però, la cosa che più mi diverte è fare Rap a tutto tondo. Mi capita spesso di essere chiamato per fare la giuria e, a volte, quando si tratta di amici che organizzano cose fighe lo faccio volentieri. Altre volte, invece, preferisco rinunciare. Anche perché, sarebbe un controsenso: a volte chi è in gara è 10 volte più forte di me e non mi sembra giusto “giudicarlo”.
Ho sempre visto il freestyle come divertimento.

Segui ancora il freestyle?

Quando capita, ma non saprei dirti chi sono i più forti del momento. Una battle molto bella è il Mic Tyson per esempio perché il livello è alto e i freestyler hanno un approccio che mi piace particolarmente. Grande merito anche di chi, come Dj Ms e Nitro, ha tirato su la competizione definendone i valori. Intelligentemente.

In generale, se devo essere sincero, non tutti i freestyler di ora mi piacciono, non mi ritrovo tanto in questo nuovo modo di fare freestyle che è 95% punchline.

Come valuti il freestyle attuale?

Un po’ troppo incentrato sulle punchline. Ora è molto: tre barre a caso e poi la rima che fa urlare il pubblico. Un metodo che non mi ha mai fatto impazzire, che ti dà poca possibilità di essere estemporaneo, per quanto la punchline sia comunque importante.

Chi ti piace, quindi?

Per me ancora adesso i migliori freestyler italiani sono Ensi, Kiave, Il Danno, e Moddi.
A questi aggiungerei Debbit, Dank e Shade. Per motivi diversi.
In generale penso (ancora) che il freestyler fortissimo non è quello che vince più battle ma quello che prende più “forward” (per usare un concetto chiaro alla scena reggae & dancehall). Spesso, naturalmente, vincere e spaccare sono cose che coincidono.
Altre volte, si vince per gli amici o per un giudice particolarmente benevolo nei tuoi confronti. Ma anche questo, in fondo, fa parte del gioco.

Dove si vede, per te, la bravura del freestyler?

Attraverso due cose: facendo capire che stai facendo freestyle, che stai letteralmente improvvisando. L’altro punto è far capire al pubblico che sei bravo, cosa non scontata; soprattutto se non è un pubblico di fans/addetti ai lavori.

In cosa ti aiuta il freestyle?

Ti aiuta a essere una persona spigliata, aiuta i tuoi riflessi diciamo. E poi, a tenere il palco. A capire subito la situazione in cui ti trovi e come puoi “portarla a casa”.

Come ti aiuta nella musica?

Io ho una modalità forse un pochino ‘claustrofobica’ nella produzione dei pezzi. Non li scrivo sul foglio/pc, li rappo nella mia testa in continuazione finché non decido che è il momento di registrarli. Questo, di certo, deriva dal mio rapporto con il freestyle.
Ciò non vuol dire che a volte (raramente) non provi a scrivere un pezzo su un foglio e a ragionarci un po’ di più. Per farlo ‘respirare’, tanto per continuare la metafora di prima.

Punto di forza a livello di musica?

La spontaneità.

Tu ti sei spostato dalla Calabria a Roma. Conta vivere in un posto rispetto ad un altro per fare successo?

Sì, è importante, ma non è tutto. Ovviamente nelle città grosse hai più stimoli, più confronti a livello artistico. Però non è: “Vado a Milano e divento un rapper”. Non funziona così e, infatti, molti hanno avuto successo rimanendo nella loro città. Molti paradossalmente han cambiato città e non se li è filati più nessuno.
Ma, spostarsi, in ogni caso, è un’occasione di confronto, ancora di più all’estero.

Punti di riferimento musicali di Don Diegoh?

Fuori dal rap: De Gregori, De Andrè, Rino Gaetano. Ne ho sempre apprezzato la scrittura.
All’interno del Rap, musicalmente parlando, ce ne son tanti. Se dovesse sceglierne solo alcuni, direi che ho una predilezione per Nas, i Gang Starr, gli Heltah Skeltah, Lugi e Primo Brown.

CmA

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