Freestyle – L’Incanto Patronus del rap

Di Stefano Uccheddu

Rimo da quando ‘sta battle la meritava Ensi e non Blnkay, ma il mio rapporto con il freestyle è troppo incostante per definirmi un esperto. Ho sempre ascoltato il rap, quello sì, in ogni sua sfumatura ed è proprio così che ho scoperto questa disciplina. Dai primi ascolti in una torrida estate del 2006, da un Tradimento che mi fece innamorare a una Pioggia che mi riconciliò con Torino in un momento buio. Poi i Dogo, un altro cerbero, lì dove la mistica del rap s’incrocia con la mitologia greca. E alla fine arriva il freestyle delle Lavanderie Ramone, che ancora oggi recito come la casalinga di Voghera fa con il “Credo” alla cresima del nipote. Insomma, il freestyle lo mastico perché rumino rap da quando le tipe non la rasavano; Levi’s, motorini elaborati che sgasavano.

Io scrivo e la scrittura è ciò che mi definisce, in un elaborato scribo ergo sum che Fibra parafraserebbe con un “Ho voglia di sfogarmi, capitemi!” e probabilmente il rap è stato l’albero motore di questo processo meccanicamente complesso. Scrivere è un atto riflessivo, è la digestione di un bovino che guarda i treni passare e poi s’annoia, alla faccia dei Canti dei Pastori erranti: lenta, abulica, viscerale. Il freestyle è l’opposto: il lampo che squarcia la notte alle spalle della ferrovia, l’epifania tra mille nuvole plumbee, il butterfly-effect che smuove Katrina. Ciò che ho sempre invidiato al freestyler è l’arte del comporre in controtempo con le parole: mentre la barra taglia il microfono, il cervello elabora l’incastro e lo esplicita. Il processo è simile a quello delle RAM dei computer: tutto parte dalla decodifica delle informazioni, per proporre all’utente una soluzione efficace nel minor tempo possibile, “rubando” nel subconscio freudiano le risposte volatili, ma al tempo stesso uniche e univoche. Questo processo viene ripetuto all’infinito ed ecco che la cache del parasimpatico corre in soccorso: il rimario, l’esperienza e gli intercalari.


All’ultima battle a cui ho assistito live, ho osservato da vicino l’atteggiamento di un mostro della disciplina come Blnkay: silente, cappuccio in testa e sguardo perso verso il palco. Le pupille riflettevano la battle a cui stavamo assistendo. Non ha fatto nessun gesto, il suo busto dondolava quasi naturalmente a tempo con il beat. La sensazione era quella di un fighter pronto a tutto, un navy-seal senza confini da difendere, se non quelli della propria passione. Così, nell’attimo prima di salire sul palco, ho pienamente compreso il freestyle: è l’essenza più tangibile dell’arte; l’immediatezza di un momento che si staglia sulla tela con la violenza espressiva di Pollock e la polivalenza prospettica di Picasso. Il freestyle l’incanto patronus del rap: difficile da evocare, ma brutalmente potente nella sua esclusività.

CmA

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