Sarebbe limitante riferirsi ad Hyst chiamandolo freestyler. Un tuttofare, che passa dalle canzoni, alla produzione, alla carriera d’attore, alla scrittura di testi, alle consulenze “musicali”. Uno che ha fatto tantissimo per permettere che alcuni talenti del rap nostrano potessero crescere e mettere in mostra le proprie potenzialità. Rancore, Jesto, Shade sono sono alcuni dei tanti rapper passati sotto la sua ala. Hyst ha anche fondato una label, la Alto Entertainment, e ha organizzato l’evento hip-hop Ghetto Heaven.
Lo chiamano Sensei e basta parlarci cinque minuti per comprenderne il perché: saggezza, apertura mentale e un’impressionante ars oratoria. Una delle nostre interviste più difficili, proprio per l’esagerata varietà di cose che ci interessavano del personaggio in questione: 20 domande non bastavano. Speriamo, comunque, di essere riusciti a trasmettervi qualcosa in più su di lui.
Come hai iniziato a fare freestyle?
Ho iniziato al liceo – metà anni ’90 – grazie ad alcuni ragazzi che lo facevano. A quei tempi non era chiaro cos’era e come si faceva il freestyle. Mi sono avvicinato all’hip-hop facendo una classe di graffiti durante l’autogestione al liceo, ho visto i primi appassionati che si cimentavano nel freestyle e da lì ho iniziato. In realtà io la maggior parte del freestyle che ho fatto in vita mia, l’ho fatto in inglese, in locali americani a Roma, sia per turisti che per universitari americani.
Ti riusciva più facile farlo in inglese o in italiano? Ti costò lo switch di lingua?
Quando ho iniziato in italiano, mi veniva meglio in italiano. Il problema è che quando ho iniziato, non c’era nessuno che lo facesse in italiano, quindi fui costretto a farlo in inglese. Non mi costò particolarmente il cambio di lingua, oramai ero abituato a farlo indipendentemente dalla lingua.
E quando iniziarono a esserci i primi contest?
Sono arrivati parecchio dopo, io erano diversi anni che lo facevo per divertimento e mi fu difficile entrare nell’ottica di fare un freestyle da gara. Anche mio fratello (Jesto ndr) cominciò e quindi ci iniziammo ad allenare dentro casa e con amici. Per me era anche una scusa per girare un po’ e conoscere altra gente, non ho mai puntato a essere un freestyler di altissimo livello.
Hai trasmesso tu a tuo fratello (Jesto ndr) la passione per il freestyle?
Inevitabilmente sì, lo portai dentro casa, poi lui lo praticava con più continuità.
La tua storia nel freestyle, raccontaci di 2thebeat, Tecniche e quando hai smesso.
Quel 2thebeat coincise con il mio periodo di massima attività nel freestyle, in cui partecipavo a battle in tutta Italia. Venni invitato e partecipai. Per quanto riguarda il Tecniche, arrivai due volte in finale alla tappa romana, perdendo contro Ira una volta e contro Don Diegoh l’altra. Smisi di fare battle nel 2008 circa.
Sei attore, produttore, rapper, scrittore, freestyler… fra tante occupazioni, quale preferisci fare e perché?
Penso il beat-making. Perché devo dare meno riscontro ad altri. Quando recito, dipendo da un regista. Quando scrivo rap, tengo in considerazione la capacità di ascolto e il contesto in cui mi muovo. Invece, quando mi capita di produrre senza un obiettivo preciso, sono totalmente sganciato da qualsiasi soggetto esterno. Mi diverto e basta.
Pensi che sia anche ciò che ti riesce meglio?
No, non lo credo per diversi motivi: non è quello su cui ho insistito di più e non essendo mai diventata la mia attività principale dal punto di vista lavorativo non ho mai fatto alcuni sforzi economici per rendermi competitivo nel mondo dei producer. Quindi lavoro con attrezzatura relativamente vecchia, non faccio un gran lavoro di collezioni di suoni/samples…
Cosa pensi ti riesca meglio e perché?
La scrittura delle canzoni. Perché mi ci sono concentrato di più ed è quella in cui mi sono misurato più spesso con il feedback del pubblico. Per esempio, da attore io non ho fatto moltissimi lavori, quindi la misura della mia capacità si basa su un numero di feedback minori. Come un giocatore di calcio che gioca 3 partite, è più complicato valutarne le potenzialità rispetto a uno che ne ha giocate 30. Quindi avendo fatto molte più canzoni che film, penso di avere più prove della mia capacità in qualità di scrittore.
In tutto questo tuo percorso, musicale e non, così aperto a tante avventure diverse, quanto pensi abbia inciso il fatto di aver mischiato due culture, quella giapponese e italiana?
Il mio lavoro è emanazione della mia realtà, quindi la domanda potrebbe essere “quanto ha influito su di me?”. Ho cercato di determinare quali aspetti potessero essere ricondotti a un mondo culturale rispetto a un altro. Sono domande alle quali in realtà è impossibile rispondere, perché le due culture non sono così chiaramente delimitate, cioè non è che un giapponese non si arrabbia e un italiano non può essere coscienzioso. Io credo di vivere l’hip-hop in maniera molto orientale, soprattutto la parte comunitaria, la parte che cerca sempre di fondere l’individuo con la comunità, un qualcosa di intrinseco nella cultura giapponese. La cultura occidentale tende a favorire l’individualismo e la prerogativa personale, mentre la cultura giapponese tende a sminuire l’importanza dell’individuo in favore del sistema. Ecco io faccio fatica a mettermi al centro dell’attenzione, devo fingere a volte perché se no il mercato italiano non mi capisce.
C’è un qualcosa della cultura giapponese che ti ha aiutato nel tuo percorso?
Le arti marziali sicuramente, anche se non vi leggo una esclusività della cultura orientale. Però devo dire che la cultura marziale, intesa anche come cultura bellica/militare, mi rappresentano molto e sono esemplificativi di certi miei comportamenti e percorsi che intraprendo. Faccio un esempio: il dojo. Il dojo ha delle regole belliche/marziali, molto semplici e che sono votate all’efficienza. Le cinture colorate (il cui significato è stato gravemente travisato in Occidente, dandogli un valore conseguente alle vittorie) indicano l’ordine per il quale gli allievi si devono posizionare rispetto al maestro all’interno del dojo. Le cinture bianche sono quelle più lontane al maestro, le cinture di alto grado sono le più vicine al maestro. Questo perché se mettessi la cintura bianca di fianco al maestro, non potrebbe mai colmare il gap di conoscenza che lo separa dal maestro. Ponendola, invece, dietro la cintura gialla, la cintura bianca ha la possibilità di avvicinarsi a qualcuno che ne sa poco più di te. Questo modello può essere adattato a tantissimi ambiti.
Pensi che venga compresa la tua musica e il tuo personaggio?
La lettura cambia, magari non della singola canzone, ma dell’opera omnia, cioè del personaggio che io porto, per cui sono stato io stesso a dover fare i conti con la lettura più diffusa. Per farti un esempio: non sono io ad aver chiesto agli altri di chiamarmi Sensei. Questo è successo a causa della consistenza della mia attitudine, il mio comportamento in generale. Rimanda a una certa efficienza e razionalità comportamentale, sia nella produzione artistica che nella vita sociale. Prima che ne fossi consapevole, gli altri se n’erano già accorti, iniziando a chiamarmi Sensei. Io non mi sono mai sentito e non mi sento maestro di niente e di nessuno, ma mi sono dovuto arrendere al fatto che questa era la percezione che producevo e l’energia che emanavo, anche inconsapevolmente.
Quindi è un caso in cui il pensiero degli altri ti ha fatto credere di essere qualcosa di diverso rispetto a ciò che pensavi di essere.
Non tanto farmi credere, quanto farmi rimettere insieme i pezzi. Mi sono reso conto di come, visto attraverso una certa ottica, il mio comportamento potesse evocare tale percezione. Per mia fortuna, questo non dà fastidio alla gente e non gli dà fastidio riconoscerlo. La mia attitudine è in realtà molto dubbiosa su quello che penso e che faccio ed è forse questo che permette che si crei questa personalità che molti considerano da “maestro”.
Hyst ha contribuito tantissimo alla crescita del genere – fra Alto Entertainment, Ghetto Heaven e i tantissimi progetti che hanno fatto crescere tanti rapper italiani – ma molti fan non conoscono il ruolo che ha avuto all’interno del movimento. Pensi di essere un eroe nascosto del rap italiano?
La parola eroe è giusta se la si intende con il significato di “sacrificio”.L’eroe è chi compie un sacrificio tale da cambiare il senso della storia. In questo senso penso di esserlo, perché sono consapevole dei sacrifici che ho fatto e che rifarei. Per quanto riguarda il riconoscimento, sono sereno perché sono consapevole di tutto ciò che NON ho fatto per costruire questa popolarità. Comportamenti/atteggiamenti che altri hanno avuto/fatto e che io non ho voluto/potuto fare per carattere. Il che non mi fa odiare chi ha avuto “i comportamenti giusti”, ma semplicemente mi dà informazioni su come sono fatto io.
Cosa ne pensi della scena rap attuale?
Ci sono più artisti validi rispetto al passato, c’è però il problema della saturazione di prodotti, che ovviamente porta ad avere un’altissima percentuale di prodotti scadenti. Come effetto su di me, causa il fatto che sia più difficile stare al passo, rimanere aggiornato su tutto. Cioè, gli album di Nitro, Claver e Murubutu me li sento in ogni caso, ma magari mi perdo altri.
Ti piace la trap?
Le metriche della trap mi piacciono e mi divertono moltissimo. Sempre bello creare ritmi nuovi e convertirli a un mondo di linguaggio diverso.
Segui ancora il freestyle?
So che ci sono ottimi freestyler in circolazione, ma non lo seguo più molto. Però mi diverto tantissimo quando mi chiamano a fare giuria.
Cosa ti piace di più del freestyle?
Mi piace l’aspetto giocoso. Lo vedo come un gioco, un divertimento, anche se ho visto decadere quest’interpretazione del freestyle quando si sono messi di mezzo soldi/successo. Poi resta un’espressione musicale per me rilevante, è la cosa più simile al jazz che abbiamo all’interno dell’hip-hop. Sentire come un rapper fa freestyle mi fa capire tantissime cose, mi fa capire il suo flusso di pensieri spontaneo, il mondo di parole che circolano nella sua testa, la sua musicalità.
Consideri il freestyle un’arte?
No, non la considero un’arte di per sé, è una disciplina. Per essere un’arte a sé manca di un aspetto fondamentale che è l’intenzionalità di una certa azione. Mi spiego meglio: un attore può improvvisare su un canovaccio, ma non è un’arte a sé rispetto alla recitazione o rispetto al teatro, è uno dei possibili utilizzi degli strumenti che hai a disposizione. Poi quella cosa lì può essere utilizzata in vari modi, per esempio spettacoli di improvvisazione pura o improvvisazione di scene, per capire cosa può uscire fuori oltre il testo, facendo uscire magari alcune sfumature che il testo non aveva saputo creare. Il freestyle, in questo senso, è uno strumento simile per il rapper: magari scegli una base e un tema, ma andandoci in freestyle sopra non ti ci trovi, permettendoti di capire che non funzioni attraverso quelle modalità.
Quanto influiva sulle tue scelte il freestyle?
Moltissimo. Semplicemente perché so che se un artista ha quello strumento in mano, è molto più facile riconoscere le tue modalità reali, oltre a permettermi di capire se c’era il talento. Daga, Rancore sono ragazzi che ho scelto in virtù del freestyle.
Focalizzare il talento: qual è la ricetta giusta?
Durante la quarantena, una delle conversioni è stata fare consulenze artistiche online. Normalmente, quando la gente viene a registrare in studio da me, paga di più lo studio di registrazione perché io faccio la parte artistica in tempo reale, cercando di lavorare con l’artista su parole, interpretazioni, cercando di ottimizzare quella che era l’idea iniziale. E’ una cosa che so di poter far bene perché oramai ne ho le prove fisiche: Rancore, Shade, mio fratello (Jesto ndr) fra gli altri. So riconoscere il talento e permetto al talento di mettersi a fuoco. Una cosa che ho notato è che molti ragazzi cercano di realizzare dei brani che siano orientati ad avvicinarsi alla musica che ascoltano, quindi sulla base dei loro gusti di ascoltatore. Intanto è naturale, il problema è che a molti ragazzi succede ancor prima di iniziare ad ascoltare se stessi. La differenza, allora, sta nel fatto che uno che fa freestyle è obbligato ad ascoltare se stesso e deve fare i conti su come funziona il suo cervello, quante sillabe mette in una frase, quale tono viene fuori, quale mondo di parole appartengono alla sua testa. Di conseguenza, un freestyler è consapevole di quelle che sono le sue caratteristiche individuali, perché le ha già ascoltate. Se invece un ragazzino vuole fare un pezzo come Ernia – non parlando come Ernia, non avendo la sua voce, non pensando come Ernia, non avendo il suo bagaglio linguistico – gli verrà fuori semplicemente una cosa brutta.